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“E MI NO FIRMO” Basaglia seppe dire di no, grande esempio per questi nostri anni di troppi sì

“E MI NO FIRMO” Basaglia seppe dire di no, grande esempio per questi nostri anni di troppi sì

Da studente universitario di Architettura a Venezia, negli anni Settanta ero un attivo sostenitore di Basaglia e della sua proposta di chiudere i manicomi. Lo facevo per una adesione al movimento dell’antipsichiatria, comune a buona parte del Movimento di rivolta giovanile di quegli anni, come dice bene Francesca Zanini nel libro uscito a marzo 2025 Il volo di Francesca, ma anche per una questione strettamente personale.
Nel 1967/68 frequantavo la prima liceo scientifico al Messedaglia, in Stradone San Fermo, a due passi dall’Arena di Verona; una vera fortuna andare a scuola a piedi scendendo dalla Valdonega con un paio di coetanei che poi proseguivano per il Lorgna, istituto per geometri in Corso Porta Nuova. Quella passeggiata camminando veloce tra le case antiche, i palazzi cinquecenteschi, piazza delle Erbe e via Mazzini, i posti più belli della città, mi rinfrancava e arrivavo a scuola con meno ansia per la mia cronica impreparazione nelle materie più ostiche come Latino e Matematica. Studiare Letteratura italiana invece mi piaceva, ma non riuscivo a sopportare la richiesta della insegnante di imparare a memoria le poesie, richiesta che escludeva accuratamente quelle di Leopardi, le uniche che mi entusiasmavano. Sentivo quella imposizione come un insulto alla mia intelligenza, come un volermi ricacciare alle elementari dopo che, con la media dell’otto, io figlio di un semplice maresciallo ero riuscito a conquistarmi l’accesso a quel liceo esclusivo. Quando la professoressa ci impose come compito per casa di imparare a memoria “Piemonte” di Carducci stavo leggendo una raccolta di poesie di Prevert, non riuscii a piegare ancora la testa e me ne fregai della professoressa.
La verifica in classe consisteva in una sadica interrogazione “a salto” riguardante soprattutto i maschi che erano i più insubordinati pur provenedo da famiglie molto inserite nella società cittadina. Quando fu il mio turno di recitare a pappagallo la strofetta successiva di “Piemonte” risposi che quella roba non l’avevo studiata e l’insegnante, acida e zitella, si indignò. Avevo anche il coraggio di sostenerlo a testa alta! Con un tono da kapò mi chiese perchè mai non l’avessi studiata e la mia risposta fu “Avevo di meglio da fare che perdere il mio tempo in quel modo”. Il gelo si impadronì dell’aula e nessuno dei miei 35 compagni e compagne di classe fiatava. Sembrava che la prof. avesse potuto fucilarmi sul posto. Era bianca e rossa e verde per la rabbia, un bell’esempio di patriottismo, e quasi balbettando sull’orlo di una crisi di nervi, mi urlò “E cosa puoi avere tu, di più importante da fare?”
Così mi offrì il destro per darle il colpo di grazia: “Per esempio uscire con la mia ragazza”.manicomio femminile
Convocò entrambi i miei genitori mettendoli di fronte alla necessità di sottopormi a una cura psichiatrica perchè ero evidentemente pazzo furioso. Dico sul serio. Quando mia madre, in assenza di mio padre, me lo disse parlando sottovoce mi spaventai. A Verona il Sessantotto non era ancora arrivato e nessuno avrebbe sostenuto la mia causa.
Per fortuna i miei non avevano i soldi per affrontare spese del genere e mia madre mi difese dicendo che anche se ero un po’ “strano” non voleva dire che fossi matto, e poi a scuola andavo bene e per lei quella era la cosa più importante.
Con la percezione di aver corso un rischio mortale, chiesi a una ragazza più grande che frequentava la parrocchia com’era la faccenda della psichiatria e dei manicomi. Eravamo nel 1967 e, come drammatico esempio, si ricorderà che l’internamento – chiesto dal marito – di Alda Merini nell’ospedale psichiatrico Paolo Pini va dal 1964 fino al 1972. La ragazza era informata e mi spiegò che bastava la firma di uno solo dei miei genitori che finivo in manicomio dove diventavo matto davvero e non ne uscivo più.
Poi finalmente il Sessantotto arrivò anche a Verona, sebbene con un po’ di ritardo, e del Carducci nessuno parlò più.
Però il timore di essere giudicato pazzo si trasferì sulle mie percezioni sensitive che affioravano incontenibili e parecchio inopportune, per quello ci tenevo così tanto che chiudessero i manicomi e ogni volta che passavo da Campo San Polo mi fermavo a guardare le finestre della casa dei Basaglia inviando tutta l’energia che potevo a Franco e a Franca.

Alcuni articoli su Franco Basaglia, del quale nel 2024 è stato il centenario della nascita, mi sembrano utili per ricordare la sua figura.

«E mi no firmo»: quando Basaglia disse di no
di Massimo Cirri, giornalista, psicologo, scrittore. L’articolo è tratto da Sinistra Sindacale, n. 5/2024

È il 16 novembre 1961. Franco Basaglia, 37 anni, entra nel manicomio di Gorizia. È il nuovo direttore e fino a quel momento di manicomi non ne ha mai visti uno. Di manicomi allora, in Italia, ce ne sono più o meno cento e dentro ci sono rinchiuse 100mila persone. E sono tutti uguali. Questo qui, a Gorizia, è un po’ particolare solo perché sta al confine: uno dei suoi muri divide l’Italia dalla Jugoslavia, l’Occidente dal blocco comunista, e se un internato scappa scavalcando da quella parte, e succede, andarlo a riprendere diventa quasi una questione diplomatica. E sono uguali, sempre, in tutto il mondo, i manicomi: un format.
Il nuovo direttore viene dall’Università di Padova, Clinica delle malattie nervose e mentali. Avrebbe voluto fare carriera lì. È bravo, studia, scrive le pubblicazioni che servono ad andare avanti e ha ottenuto la libera docenza. Ma non è allineato. Legge libri di filosofia: Husserl, Minkowski, Sartre. Testi che in un reparto di neurologia non si sono mai visti. Così il direttore della clinica, professor Giovanni Battista Belloni, comincia a chiamarlo “il filosofo”. Il che non è proprio un complimento.
Basaglia capisce che in università non avrà futuro. Allora c’è il concorso per direttore di manicomio, carriera di serie B. Nei manicomi si fa il lavoro sporco della psichiatria. Ci finiscono i poveri fuori di testa, le donne che non riescono a stare nei ruoli assegnati dal patriarcato feroce, i marginali, quelli schiantati da un disastro dell’esistenza. A Gorizia, terra di confine, tante vittime dell’esodo da Istria e Dalmazia, le vite storte per i fallimenti della macchina sociale. Basaglia racconterà che quel giorno, entrando nel manicomio, gli arriva addosso un odore che ha già sentito. È stato nel 1944, quando da studente, antifascista, gli trovano dei volantini nella borsa e sta sei mesi in galera. È proprio uguale: un odore di merda e di morte.
La vede, la morte, entrando nei padiglioni. È in quello che gli si para davanti, la miseria dei cameroni, le persone legate ai letti, la moltitudine che si aggira avanti e indietro, senza senso né finalità, la violenza che pervade tutto, e, di più, la percepisce in qualcosa che solo da filosofo riesce a vedere bene: nell’assenza. Dice: «Qui ci sono 600 internati ma non c’è più nessuno». Non sono più persone, cittadini, soggetti, vite umane: sono cose. Basaglia sente la vergogna e ha voglia di andarsene. Però resta. E comincia a coltivare un pensiero mai pensato prima: che si debba e si possa distruggere un manicomio, non riformarlo, cambiarlo, modernizzarlo, ma proprio farne a meno. Perché, scrive, «il manicomio è un campo di concentramento, un campo di eliminazione, un carcere in cui l’internato non conosce né il perché né la durata della condanna, affidato come è all’arbitrio di giudizi soggettivi che possono variare da psichiatra a psichiatra, da situazione a situazione, da momento a momento, dove il grado e lo stadio della malattia hanno spesso un gioco relativo».
In quel primo giorno l’Ispettore capo del manicomio, si chiama Michele Pecoraro, gli mette davanti il registro delle contenzioni, il librone dove sono scritti i nomi degli internati che la notte precedente sono stati legati al letto. Il “Signor Direttore” deve solo firmarlo, si è fatto sempre così, un gesto da niente. Gli porge la penna stilografica e Franco Basaglia la prende, toglie il cappuccio e si blocca. Ci pensa un attimo. Chi è presente nella stanza dirà che pare un tempo lunghissimo. Poi la restituisce all’Ispettore e lo dice nitidamente, in veneziano: «E mi no firmo».
Un gesto di rifiuto, per iniziare. E dopo molti atti che non si sono mai visti in un manicomio: persone slegate, reparti sempre un po’ più aperti, con attenzione e responsabilità, umanizzazione. Franco Basaglia e Antonio Slavich, un collega che lo ha raggiunto qualche mese dopo, passano i pomeriggi, ogni giorno, a parlare, a cercare di parlare, individualmente con ognuno dei 600 internati. Mettendo un po’ da parte, tra parentesi, quella diagnosi, schizofrenia, catatonia, che copre tutto per lasciar posto alle parole e ai racconti delle vite individuali. Con le tragedie attraversate, i fallimenti, le sofferenze, i demoni silenziosi o urlanti che le persone si portano dentro. Ognuno la propria storia. Per ricominciare, faticosamente, a ridiventare persone. Prendono dall’esperienza della comunità terapeutica, quella sviluppata in Gran Bretagna per i soldati ammattiti per le violenze della guerra, e trasformando tutto il manicomio in una gigantesca, provvisoria, comunità in cambiamento.
Hanno tutti contro: le psichiatrie, la politica, i giornali, la magistratura. Anche i sindacati. Che fanno fatica a capire tutti quei cambiamenti nell’ordine del manicomio e li temono. La Cgil cambierà, ma solo anni dopo, e si riscatterà definitivamente impegnandosi con grande energia nella battaglia per la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, l’ultimo residuo dell’epoca manicomiale, nel primo decennio degli anni 2000. A Gorizia, tra il 1961 e il 1969, Basaglia e i suoi – la moglie Franca Ongaro sarà una parte fondamentale del gruppo – hanno dalla loro l’opinione pubblica. Perché ci sono grandi fotografi che rendono visibile l’inumanità del manicomio, giornalisti che raccontano, Sergio Zavoli che porta la questione in televisione e lo guardano milioni di persone. C’è una giovane giornalista della tv finlandese, si chiama Pirkko Peltonen, che filma l’assemblea generale dell’ospedale psichiatrico di Gorizia, con gli internati a dibattere se la televisione finlandese possa o non possa riprendere l’assemblea generale dell’ospedale psichiatrico di Gorizia. Vincono i sì. È la testimonianza di quanto abbia risonanza globale quello che sta succedendo in un manicomio di confine. Basaglia e i suoi scrivono un libro, un saggio denso, “L’istituzione negata”, Einaudi, che in pochi mesi vende 50mila copie e vince il prestigioso premio Viareggio. E discute, l’assemblea generale, se accettarlo o meno. Ma la politica è impaurita. Quello che sta succedendo è insopportabile per la Democrazia Cristiana, che governa la provincia di Gorizia. Nel settembre del 1968, quando Alberto Miklus, un internato che è tornato a casa con un permesso temporaneo, uccide la moglie, tutto precipita. L’indagine giudiziaria non coinvolge Basaglia ma segna la fine della sua esperienza. Lascia Gorizia, trascorre sei mesi a New York, come visiting professor, viaggia in Centro e Sud America. Nel 1970 ci riprova nel manicomio di Colorno, provincia di Parma, amministrata dal Partito Comunista, che si è impegnato a sostenerlo. Ma anche lì ci sono molte resistenze. Perché per il Partito Comunista la questione dei matti, come di tutte le marginalità, è secondaria. Verranno liberati, i matti e tutti gli altri, quando il grande cambiamento spinto dalla classe lavoratrice libererà tutti. O, più concretamente, gli psichiatri emiliani non vogliono avere niente a che fare con un’esperienza così radicalmente differente.
Poi tutto ricomincia nel 1971 a Trieste. Un altro manicomio, grandissimo, 22 ettari sulla collina, quaranta palazzine e un politico, Michele Zanetti, democristiano, giovanissimo, che lo chiama. Insieme rimettono in moto la macchina del cambiamento. Nel 1972, il 3 maggio, davanti al dottor Vladimiro Clarich, notaio, 28 persone costituiscono la Cooperativa Lavoratori Uniti. Sedici sono internati. Hanno capito, insieme agli altri, che il loro lavoro tiene in piedi il manicomio. Perché spalano il carbone nelle caldaie, lavano la biancheria, la distribuiscono nei reparti, cuciono le misere divise che tutti devono portare. Ricevono in cambio un buono, un pezzo di metallo, il manicomio batte una sua moneta, da spendere nello spaccio interno. E allora, pensiero radicale, se è lavoro deve essere riconosciuto come tale. Allora si fa una cooperativa. Non è facile: il Tribunale rigetta l’atto costitutivo, i sedici sono internati, non cittadini. Non possono votare, contrarre matrimonio, fare testamento. Figurarsi fondare una cooperativa. Il notaio fa ricorso, la Corte d’appello respinge. Ci riprovano: nuovo atto costitutivo con gli internati che diventano “ricoverati volontari”, per una legge del 1968 che sta cominciando a mutare la fissità dell’Ospedale psichiatrico e per una delibera dell’amministrazione provinciale, a firma Michele Zanetti, che dice basta all’ergoterapia, la falsità del lavoro senza paga spacciato per cura. Nasce la prima cooperativa sociale del mondo, è il 16 dicembre 1972, e tra i soci c’è Franco Basaglia.
Poi ancora avanti, verso un’altra dimensione, anch’essa mai pensata prima: cosa costruire nelle città al posto del manicomio. Una rete di servizi, aperti sempre, giorno e notte, nei quartieri, vicini alle persone. Il primo Centro di Salute Mentale apre nel 1975, il Primo Maggio. Infine la legge 180, maggio 1978, che applica la Costituzione: anche da matti, anche da molto matti, anche se si è fuori come un balcone, si rimane cittadini. E basta manicomio. Ci vorranno anni per chiuderli tutti. Resistenze, inerzie.
Poi, storie di oggi, tornano prepotenti le psichiatrie che giocano tutto sulle diagnosi; ci sono molte persone legate ad un letto nei reparti degli ospedali; c’è il sottoinvestimento nei servizi di salute mentale come in tutta la sanità pubblica. Tocca, sempre, ricominciare e continuare e cambiare. È faticoso e difficile. Ma l’alternativa è la vergogna.

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Manicomio occupatoL’occupazione dell’ospedale psichiatrico di Colorno
Da https://www.viaggiatoriignoranti.it

Un caso fondamentale fu l’occupazione dell’ospedale psichiatrico di Colorno tra il 1968-1969. Prima dell’occupazione, l’ospedale si presentava con una struttura molto vecchia, con molti malati e pochi medici e infermieri. Vi era una rigida divisione tra uomini e donne, infermieri e infermiere e dei reparti in base al grado del disturbo.
Cosa avvenne a Colorno a cavallo tra il 1968 e il 1969?
Nella primavera del 1968 la protesta degli infermieri trovò consenso nel movimento studentesco che iniziò a interessarsi all’ospedale, vedendo nella psichiatria il paradigma estremo della medicina di classe.
Dal 27 al 30 gennaio 1969 si svolse a Parma il convegno “Medicina e psichiatria” ed è proprio qui che gli studenti iniziarono ad avanzare richieste sul miglioramento della struttura e il 2 febbraio 1969 decisero di occuparla. Le richieste vennero accolte, ma la stampa locale si dimostrò contraria all’occupazione … e iniziarono a esserci incertezze sia da parte dell’amministrazione, che temeva di subire un danno economico se l’ospedale fosse stato chiuso, sia da parte dei sindacati, che per la maggior parte non appoggiarono la protesta. Grazie, anche, all’occupazione del manicomio di Colorno si modificò in modo perenne la visione dei pazienti psichiatrici.
Alla fine Basaglia divenne direttore dei servizi psichiatrici di Parma.
Nel 1978 venne approvata la legge a lui intitolata (Legge n. 180), che di fatto ha abolito i manicomi. Da quel momento il Trattamento Sanitario Obbligatorio poteva essere effettuato solo “se esistono alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici e se gli stessi non vengano accettati dall’infermo.

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Nato due volte
di Matteo Spicuglia. Da https://www.sermig.org/idee-e-progetti/

«Ho ricordi indelebili. È stato uno shock, un pugno nello stomaco, un nodo alla gola». Annibale Crosignani oggi ha 90 anni. Nel 1968 era un giovane psichiatra che varcava per la prima volta le porte dell’ex manicomio femminile di via Giulio a Torino. Uno degli inferni nella città, luogo di separazione del disagio da tutto il resto: fuori la vita normale, dentro un limbo di diritti sospesi, dove la dignità, ricorda Crosignani, «veniva profanata». È commovente vedere l’intensità di ricordi così vivi anche dopo 50 anni. «Mi trovai di fronte a un reparto con 160 donne abbandonate. Vivevano in un camerone unico. Le più fortunate lavoravano nella lavanderia e nella stireria, tutte le altre passavano il tempo ad aspettare qualcosa che non arrivava mai».
Con un paradosso: non tutte le internate avevano problemi mentali. Più di un terzo erano ragazze giovanissime, con un passato difficile o di povertà: c’è chi era scappata di casa, chi era entrata in rotta con la famiglia, chi da un orfanotrofio era passata direttamente al manicomio. Nessuna speranza. Tra quelle pareti il tema non era la cura, ma la contenzione e la separazione, con i medici ridotti al ruolo di burocrati. «Dovevamo mettere la firma, avallare quello che la società chiedeva, ma io non avevo alcuna intenzione di lavorare così. Arrivavo dalla clinica universitaria, ero preparato, ma soprattutto avevo intuito che in quel luogo c’era un mondo da scoprire».
La rivoluzione di Annibale Crosignani partì da questa scintilla. Parlare con le malate non era prudente? Lui lo fece. Ascoltarle tempo perso? Non per lui. Rischioso mettersi contro le regole? Semplicemente necessario.
Come quella volta, con una paziente sulla sessantina, ma con la mente e il cuore da bambina. «Quella donna viveva per la sua bambola di ceramica. Un giorno durante un litigio, un’altra ammalata la prese, la buttò per terra e la mandò in frantumi. La donna era disperata perché aveva perso il suo tutto. Urlava, piangeva, non si dava pace, nessuno riusciva a calmarla. Mi chiamarono d’urgenza e decisi di prendere la situazione di petto. Mi avvicinai, la guardai e le feci una promessa: “Se smetti di piangere, domani ti porto un’altra bambola”. Lei mi credette». Il professor Crosignani passò il pomeriggio a cercare una bambola uguale e alla fine la trovò. Il giorno dopo la portò alla sua paziente. «Lei si calmò e mi abbracciò. Poi con uno sguardo luminoso mi disse: “Ma tu adesso giocheresti con me?” Non ci pensai due volte. Ci sedemmo per terra come bambini e giocammo. Le infermiere vedendomi in quella situazione mi presero per matto».
Una storia emblematica che riportò al centro il valore dell’empatia e della vicinanza che cura. La strada era segnata, il muro dell’incomunicabilità abbattuto, un nuovo metodo portato finalmente alla luce. Iniziò così una battaglia di civiltà che gradualmente condusse alla chiusura dei manicomi, quello di via Giulio già nel 1973, cinque anni prima della legge Basaglia, tra mille incompiutezze un punto di non ritorno.
Per Crosignani fu anche una lezione di vita definitiva: «Quelle donne mi hanno permesso di conoscere l’umanità e il mondo. Pur nella loro fragilità, avevano qualità rare: erano più sincere e più autentiche delle persone cosiddette “normali”. Mi ritrovai a custodire dei tesori imparando il senso della vita, del limite, il fatto che non siamo onnipotenti».
Una vera rinascita! Lo sguardo azzurro di Crosignani si fa piccolo, gli occhi diventano lucidi, ma la voce resta ferma: «Come psichiatra sono rinato in quel momento. È come se tutte quelle donne mi avessero partorito una seconda volta».